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ECONOMIA SENZA PROFITTO

S’è tanto parlato dell’uomo nei secoli scorsi e si continua a parlare all’inizio del III Millennio, anche se con minore entusiasmo. Abbiamo assistito ad una progressiva scadenza dell’essere a vantaggio di un crescente valore dell’avere. Il suo interesse, perciò, ed il suo intrinseco significato si sono spostati, man mano, dalla sua interiorità fino alle cose, cioè a tutto ciò che è esterno a lui. Un’elegante, seppure dannosa, sistematica trasformazione s’è impadronita dell’uomo fino alla sua reificazione, sublimazione, da altri definita alienazione. In un siffatto sistema è chiaro che l’economia trova un’importanza centrale, sostitutiva dell’uomo stesso. Ed è ancora di più importante se pensiamo che essa (l’economia) è pur sempre una sua invenzione. Dunque l’uomo si aliena volutamente e per questo è come se non si fosse mai alienato. Si nega come uomo, ma affermandosi nella sua negazione egli si riconquista e si predispone con giustificazioni in apparenza non sue, oggettive e legate alle presunte leggi dell’economia e del contesto sociale. Impara così ad accettare, senza alcuna responsabilità, la sua possibile irresponsabilità. L’altro gli è indispensabile per la sua autenticazione. Stanco di sentirsi responsabile di ciò che gli accade e del suo stesso destino, trova più comodo, anche se in taluni casi più rischioso, affidare al sociale la gestione della vita. L’economia sostituisce la supremazia della forza fisica e all’oppressione con le armi si sostituisce una nuova forma di sottomissione, quella economica. In questa maniera l’uomo si garantisce una certa strategia del potere. In fondo non rinuncia mai al potere dell’uomo sull’uomo, ma lo trasforma e lo giustifica sotto spoglie diverse, solo in apparenza più giuste perché regolate da leggi precise, a lui esterne. I tempi moderni pongono all’uomo un quesito di grande importanza, da cui dipende anche il suo stesso destino: continuare a sottostare alle feroci leggi dell’economia o ritornare seriamente all’interiorità e all’essere. Dopo l’industrializzazione e l’avvento della tecnologia, supportata da mediocri teorie positivistiche, i valori non contano più, ma una sorta di arrangiamento pragmatico che, giocando con le parole, nasconde la verità: è questo il tempo per mentire? Ci sono stati tempi che hanno consentito la menzogna per opportunismo e per paura della vergogna; oggi questo non è più possibile ed ogni errore di valutazione potrebbe essere irreparabile. Vediamo però come si possa, ai giorni nostri, organizzare un’economia senza profitto. Intanto dovremmo iniziare a capire, sullo sfondo della città planetaria, che le differenze conflittuali e non solo di metodo tra pubblico e privato sono fittizie e di certo non a favore dell’umanità. Economia senza profitto può sembrare una contraddizione, forse lo è, se si continua a pensare alla vecchia maniera, ma è il passaggio ideale per il ritorno all’umanesimo senza frontiere. Vuol dire produrre per l’esistenza e non per un mercato. Questo (il mercato) crea le frontiere e gli interessi, l’umanesimo apre ogni frontiera ed ha come unico interesse la salute degli uomini. Ma come si organizza una società senza profitti? Bisogna educare i cittadini alla vita sociale e nel pieno rispetto della natura, facendo loro capire che tutto deve avvenire per un interesse comune. Per il lavoro socialmente organizzato, cioè indirizzato a fini comuni (scuola, assistenza sanitaria, servizi ecc.), sono sufficienti tre fasce salariali (o di retribuzione), minimamente differenziate, anche perché il surplus non deve più produrre interessi o profitti d’investimento. Il lavoro privato, di libera creatività, ha un valore di specificità, ma non consente al singolo di usufruire di particolari vantaggi economici. I suoi bisogni essenziali sono comuni a tutti gli uomini e pertanto omologabili economicamente alle tre fasce remunerative degli operatori sociali. Tutto il resto va in un fondo comune, il cui fine è quello di migliorare la vita con la ricerca e con lo studio, e creando casse di pubblica utilità. Le stesse banche devono funzionare come elementi di garanzia per la vita dei cittadini, consentendo ad essi di realizzare ogni bisogno essenziale con l’impegno di ciascuno a restituire la giusta richiesta, senza alcun interesse, nei tempi compatibili con l’economia generale. Un’economia senza profitto supererebbe il concetto d’interesse e ogni strategia fiscale perché l’unico valore, legato all’esistenza, è quello del saper fare camminare la macchina dell’umanità. Non essendoci più la corsa al profitto anche il concetto di Giustizia verrebbe a cambiare divenendo, in un siffatto contesto, garanzia di rispetto delle regole. Tutti gli affari illeciti e la stessa violenza distruttiva non avrebbero più senso, venendo a mancare quel presupposto aggressivo che l’economia di profitto genera in forma conflittuale. Ovviamente un’economia simile richiede un contesto planetario e perciò automaticamente significherebbe la fine di ogni precedente strategia: capitalismo, liberismo e dello stesso comunismo che si regge su una organica distinzione in classi, dove il lavoro e non l’uomo manifesta contingentalmente il suo primato. E’, a mio avviso, la presa di coscienza e la maturità delle coscienze che possono portare ad un totale sovvertimento a favore dell’essere e non la conflittualità di classe, che una economia senza profitto annullerebbe di fatto. La stessa nuova maniere di esistere annullerebbe ogni inutile spreco di energia non costruttiva, a favore di un investimento utile a quella popolazione finora abbandonata a se stessa e spesso oggetto di violenza e di sopraffazione. Un’economia senza profitto sarebbe infatti, senza alcun dubbio, un’economia della pace. Non mi stupisco se qualcuno, leggendo l’elaborato, mi accusi di utopia. So bene che liberarsi del passato è cosa non facile e il cervello umano è un organo facilmente condizionabile, ma mi conforta il fatto che ogni idea nuova è sempre utopia e che la storia dell’uomo è ricca di nuove idee. Intanto, nell’attuale economia di mercato, che si rapporta continuamente ad un sistema fiscale finalizzato ad un concetto liberista dell’economia e della finanza e ad un preciso strategico mercato del lavoro, i cui presupposti nascono dalla concezione capitalistica di tutta l’economia e non da una definizione umanistica della vita, è utile fare delle considerazioni e cercare immediate, anche se provvisorie, soluzioni per il problema dell’occupazione.
Già dal 1993, la disoccupazione nazionale e mondiale hanno raggiunto cifre spaventose che rappresentano un elemento di potenziale ribellione, non sempre contenibile. Ciò appare, ancora di più, rischioso e imponderabile se si associa il problema delle migrazioni di vasti gruppi etnici e culturali da una zona del nostro pianeta ad un’altra. Nel nostro paese è cosa ormai scontata, anche se ultimamente trascurata, a vantaggio di una forma di tecnocrazia che penalizza l’occupazione, che servono posti di lavoro, ed io aggiungerei di lavoro produttivo, evitando così gli aspetti negativi per l’economia nazionale. Il lavoro non deve rientrare in una visione assistenzialistica del cittadino, ma in un quadro democratico e costituzionale di diritti umani inalienabili, anzi necessari per una corretta e garante coesistenza nazionale (ed internazionale). Lo stesso problema degli extracomunitari non può essere superato con l’idea di una sub-occupazione, ormai respinta dalla cultura del lavoro degli italiani. Il problema dell’immigrazione, per la ricerca di un lavoro, non è un problema solo per l’Italia, è un problema europeo e come tale deve essere affrontato. Gli impegni dell’Europa delle Nazioni e delle economie (sebbene Maastricht parli di economia e di moneta uniche) devono essere quelli di aiutare in situ i popoli del terzo mondo a mettersi alla pari dei popoli più progrediti economicamente, offrendo loro i nostri aiuti economici e tecnologici, perché loro, in passato, sono stati oggetto del colonialismo occidentale (e continuano ad esserlo). Uno scambio e un confronto delle culture nazionali sono sempre utili, ma non l’irreversibile trasformazione, con la perdita delle identità nazionali. Intanto, come nei momenti di alta crisi economica del passato, è utile, ai fini di evitare un ulteriore aggravamento del debito pubblico, adottare quella soluzione definita “sistema di banca nazionale”. Si tratta cioè di finanziare un sistema produttivo di mercato di lavoro e d’investimenti con crediti emessi direttamente dal Tesoro e non dalla Banca Centrale, evitando così l’inflazione e recuperando col nuovo lavoro entrate fiscali a costo zero.
L’America di Roosevelt adottò questo metodo per uscire fuori dalla Grande Depressione. Perché dunque non potremmo farlo anche noi, in attesa di evoluzioni più umanistiche dell’economia? Non dimentichiamo poi che la disponibilità del lavoro deve essere valutata rispetto al territorio europeo e non più solamente sui territori nazionali. Se ciò non bastasse, lancio ai politici ed agli esperti di economia l’idea d’indagare su una possibilità di mercato di lavoro, di economia e di cultura, del bacino del Mediterraneo. I paesi europei ed africani che si affacciano sul Mare Nostro, da esso collegati direttamente, hanno l’obbligo di organizzare, senza nulla togliere al progetto europeo, un accordo di collaborazione tecnologica, economica e culturale, proiettata verso il futuro di una economia mondiale e di una sua possibile cultura. Questo per noi sarebbe certamente un fatto economico di estrema importanza, rappresentando noi il paese a più elevata produzione tecnologica del bacino. Noi potremmo perciò esportare tecnologia ed insegnamento, necessari agli altri paesi, risollevando così la nostra economia. Sappiamo che certi mercati sono tenuti stretti dalle potenze economiche più avanzate, quasi in forma monopolistica. Non si può però fare demagogia e condannare sempre le economie più deboli se non si dà ad esse l’opportunità di svilupparsi liberando le proprie potenzialità. Qualcuno diceva che le guerre non sono guerre di idee, ma di economia. Aggiungo che purtroppo anche le idee si sottomettono all’economia. Per esempio le idee religiose servono, in taluni casi, a coprire i conflitti d’interesse. Non è improbabile che se non dovesse andare avanti un processo di avvicinamento, seppure economico, tra i paesi del bacino del Mediterraneo, potrebbe, in un futuro prossimo, scoppiare un conflitto tra cattolicesimo ed islam, che cela la volontà di voler tenere, da parte di qualche impero economico, sottomessi l’Europa e il mondo, privandoli di ogni possibilità di creare mercati alternativi. Qualcuno potrebbe dire che questa politica economica si scontra con l’Europa di Maastricht. In verità, io credo che ormai questo progetto è fallito e gli stessi firmatari del Trattato sono oggi orientati verso politiche protezionistiche. Nessuno intanto può negare che l’Europa marcia a due velocità e che lo stesso asse monetario franco-tedesco è costretto a rivedere i suoi programmi per non piegarsi sotto gli effetti recessivi di una politica economica liberista di stampo thatcheriano. Non dimentichiamo poi che la politica monetaria della Banca Mondiale, col Fondo Monetario Internazionale, è quella di mantenere fermi gli equilibri, ostacolando ogni radicale cambiamento nella cultura e nell’economia.

 Antonio Vento

19-11-12

 

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