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L’IPOCRISIA DELL’UMANITA’ RISCHIA DI DISTRUGGERE LA SPECIE

Da sempre rincorriamo il dubbio della nostra consistenza e cerchiamo di darci un senso attraverso il non senso, non essendo capaci di comprendere tale consistenza. Sappiamo dire che ci siamo, ma non riusciamo a stabilire chi siamo. Pensiamo di essere, ma non sappiamo cosa siamo: quando rifiutiamo quello che non vogliamo essere, non escludiamo il nostro non essere, come non accettare l’idea della strage non sopprime la strage in sé. I grandi moralismi hanno negato verbalmente ogni forma di immoralità, ma non hanno saputo escludere concretamente e realmente l’immoralità stessa. L’umanità ha subito continuamente un pensiero di pietra che non ha mai avuto la capacità di sciogliere fino in fondo la sua durezza. In questo consiste la sua ipocrisia che la vede sempre protagonista e vittima del suo unico destino per la morte. La sua essenza, in senso fenomenologico, coincide con la sua trascendentalità, cioè col bisogno di confermarsi ed insieme di trascendersi in qualche cosa in più di quello che è; immanenza, cioè natura e trascendenza, cioè coscienza, superamento della sua staticità, pensiero di qualcosa, quindi pensato che pensa senza negarsi, per non negare e annullare il suo fine. Nella storia dell’umanità incontriamo alcuni sillogismi, uno di questi conferma la nostra esistenza: tra principio e fine s’inserisce la nostra continuità come specie; tra natura e pensiero si afferma la vita. Eros e thanatos, secondo Freud, sta alla base del sillogismo dell’esistenza. Quindi, giocare con le parole, senza considerare la fattità del nostro essere, è come voler negare la stessa libertà dell’essere, che non può essere senza una sua appropriazione di libertà, concretizzata in un atto di volontà. Nascere per poi morire o, come direbbe Heidegger, essere-per-la-morte, vuol dire accettare, senza possibilità di rifiuto, la propria continuità in quanto specie, perché se così non fosse cesserebbe lo stesso senso della vita e della morte che, per essere, hanno bisogno di continuità sillogistica: essere-non-essere-per essere. Il per-essere è coscienza dell’essere in-sé e da questo si afferma la trascendentalità dell’essenza. La natura, fin dalle sue origini, ha posto l’essere umano di fronte ad un principio fondamentale di conservazione che si afferma solo come risultato sillogistico del’ontologia: la fecondazione è l’atto fondamentale della generazione della vita; l’uovo e lo spermatozoo generano ogni forma di vita. A mio avviso, le origini della vita, in senso evolutivo, come energia potenziale, che nel tempo si attualizza, provengono da esseri autofecondanti, cioè in possesso di gameti femminili e gameti maschili, che nell’arco di milioni di anni si specializzano geneticamente attraverso le loro funzioni, che li differenziano in maschi e femmine, in conseguenza di un loro adattamento di ruolo. Una parte di loro s’è sobbarcato il peso della sopravvivenza di fronte ai pericoli ambientali e della natura e un’altra parte ha mantenuto il ruolo della fecondazione e perciò della continuità genetica in forma più statica. Comunque entrambe le parti, strettamente complementari, hanno mantenuto vivo il principio fondamentale della procreazione. La vita perciò è il frutto di una copulazione, anch’essa sillogistica, tra parte dinamica della natura e parte statica. Gli stessi organi genitali, ovaie, utero e vagina sono complementari  ai testicoli e al pene: da tale complementarità nasce la copulazione genetica, da cui si origina la nuova vita. L’orgasmo non è altro che l’estasi della riunificazione nel sentimento di ritorno alla primordialità autofecondante, prima che si realizzasse la lacerazione della separazione evoluzionistica. Per milioni di anni la storia della vita degli uomini ha raccontato le vicende strutturali di un condizionamento evoluzionistico della natura che ha visto una parte statica dell’essere autofecondante, più debole e più scontata nel suo ruolo, sottomessa alla parte più dinamica e più forte perché avvezza a difendere entrambi le parti da ogni forma di pericolo, ambientale o naturale, per garantire la sopravvivenza. Dopo un così lungo e incommensurabile percorso ontologico stiamo iniziando ad intravedere un rientro alle origini, nello stadio di autofecondazione, dove la differenziazione sessuale non aveva senso per la continuità della specie in quanto si autogarantiva a prescindere dalla differenziazione dei ruoli. Fatta tale premessa, dobbiamo commentare alcune vicende dissennate della storia dell’uomo, che purtroppo sono frutto di confusione mentale e di terrore di interruzione procreativa della specie. E’ di questi giorni la sentenza della corte d’assise che affida l’esistenza di un figlio alla cura di due donne gay, negando la patria potestà, adducendo come principio il fatto che un bambino può essere educato e cresciuto armonicamente senza la figura paterna e rigettando ogni valore scientifico di eterogenicità naturale e di necessità genitoriale, come Freud e la psicoanalisi, da sempre ritenuta scienza, hanno sostenuto. Certamente questo precedente apre le porte all’affidamento di tanti altri figli a coppie omosessuali che renderanno impossibile la maturazione dei processi di identificazione con i due sessi, per uno sviluppo armonico della psicologia evolutiva. E’ anche il primo passo per garantire il matrimonio gay che è prospettato come segno di libertà e di evoluzione sociale: la vera libertà è la condanna dell’uomo essendo costretto sempre a scegliere, anche quando non sceglie. Subisce sempre il suo essere natura da cui non può prescindere: se si diffonde un’epidemia batterica o virale ognuno è soggetto all’infezione; in tal caso libertà e infezione sono la stessa cosa in quanto non si può sfuggire: libertà e necessità coincidono. Procreare è possibile solo nell’incontro tra gamete femminile e gamete maschile, tutto il resto è invenzione astratta, di costume, che se esasperata potrebbe porre fine a questa libertà, con l’inibizione della stessa procreazione. Le costruzioni moralistiche e religiose stanno negando il vero principio di libertà, che trova le sue fondamenta nella natura e quindi nella scienza. Il diritto è figlio dei costumi, quindi del sociale, non della natura; il suo compito è quello di aggiustare le regole della convivenza, ma non conosce la vera essenza dell’essere-con, perché ogni ricerca dell’essenza e quindi della verità implica una capacità di operare una epochè fenomenologica, cioè mettere in parentesi ogni giudizio.

Prof. Antonio Vento

Roma 10-01-13 

 

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